top of page

ADEGUATI ASSETTI: Analizziamo le difficoltà che incontrano le imprese MONO DECISIONALI

  • Immagine del redattore: Unicsa
    Unicsa
  • 26 mag
  • Tempo di lettura: 7 min

un'imprenditore che guida un treno seguendo le rotaie che si porta appresso 3 vagoni, componenti del suo treno (dipendenti, collaboratori e professionisti)

Gestire un’attività o un’azienda: esiste davvero un denominatore comune per tutti?


Sì, con una sfumatura fondamentale che troppo spesso viene ignorata: l'insieme dei compiti operativi e gestionali è simile nei contenuti tra un’attività mono-decisionale e una grande azienda, ma profondamente diverso nei mezzi e nelle modalità con cui viene affrontato. 


Non mi riferisco agli obblighi legali o normativi in senso stretto, ma al peso reale e quotidiano che grava su ogni imprenditore, indipendentemente dalla dimensione della sua impresa. Ed è qui che emerge una verità innegabile: le fondamentali attività gestionali sono le stesse, a prescindere che si tratti di una micro-impresa mono-decisionale o di una società strutturata con articolati livelli di governance e risorse dedicate. 


Le attività mono-decisionali e le grandi aziende condividono, alla base della loro operatività, gli stessi adempimenti gestionali. Poco conta se uno è focalizzato sul lavoro perché, oltre a essere il "padrone" è anche il cuoco, oppure ha investito soldi in un’impresa e vuole un utile a fine mese. 


Entrambe devono creare un valore da proporre sul mercato, affrontare le complessità connesse alla gestione di clienti e fornitori con attenzione e cura, e guidare un’organizzazione a fare e produrre verso obiettivi chiari.

Tuttavia, per quanto le finalità e le operazioni interne siano comparabili, il modo in cui vengono affrontate è radicalmente diverso. 


Nelle imprese mono-decisionali, tutto passa attraverso il titolare: non ci sono strutture parallele che possano assorbire parte del carico. L’operatività si concentra in un unico punto, ed è qui che il rischio di sovraccarico si manifesta con più evidenza. Il titolare non è solo coinvolto, è il fulcro stesso del funzionamento quotidiano: se lui si ferma, si ferma tutto. Ma tutto questo, per le imprese mono-decisionali, non basta. 


Il titolare è la locomotiva di questo treno: tutti gli altri, che siano collaboratori o dipendenti, sono vagoni. È lui che deve trainare, spronare, risolvere le problematiche quotidiane, fare da cuscinetto tra tensioni interne e difficoltà esterne. 


Deve ridurre le frizioni e gestire i conflitti, intervenire quando le cose si inceppano, aiutare i singoli a superare non solo i propri limiti operativi, ma anche le difficoltà di integrazione con il resto del gruppo.


 Parliamo di una figura complessa, che regge l’equilibrio emotivo, decisionale e operativo dell’intero sistema, chiamata a tenere insieme tutto in modo spesso invisibile, ma sempre fondamentale. Questa è una realtà specifica delle imprese mono-decisionali: tutto ruota attorno al titolare, alla sua energia, alla sua lucidità, alla sua capacità di tenuta. E se fa il cuoco, o cucina male o gestisce peggio.


Le imprese strutturate, invece, funzionano su logiche differenti. 

Non agiscono sulla base dell’impulsività, dell’emotività o degli errori cognitivi propri dell’essere umano che le guida. 

Hanno modelli organizzativi da seguire, processi codificati, sistemi di controllo e diversi livelli decisionali che distribuiscono il peso e moltiplicano la competenza. In quel mondo, il valore non dipende più dal singolo, ma dalla solidità del sistema.


Realizzare quella transizione che porterebbe anche l’impresa mono-decisionale a diventare più stabile, organizzata e competitiva richiede però molto più di una buona intenzione. 

Richiede investimenti: 


  • in formazione, per acquisire competenze manageriali; 

  • in nuova strutturazione, per costruire un’organizzazione anche minima che consenta di delegare; 

  • in tecnologia, per semplificare e monitorare i processi. Richiede tempo, energie e soprattutto le persone giuste al fianco. 


Ma tutto questo, per un titolare che è già sotto pressione e in perenne sovraccarico, rappresenta un ulteriore aggravio. È una sfida enorme, perché significa distogliere parte delle risorse già limitate per “lavorare sull’azienda” anziché solo “dentro l’azienda”. 


È un salto di qualità difficile, ma necessario, se si vuole evitare che il carico diventi insostenibile e che l’impresa resti incastrata in una trappola operativa senza via d’uscita.

Un bravo cuoco, titolare di un ristorante, si trova nella stessa condizione funzionale di una grande impresa: deve gestire il ciclo attivo e passivo, organizzare la produzione, le persone, i rapporti con fornitori e clienti, il rispetto delle normative, il flusso di cassa e la sostenibilità dell’attività. 


Ma la differenza è abissale nei mezzi a disposizione: nella grande impresa c’è un sistema organizzato, con ruoli distribuiti e funzioni specializzate. 


Il cuoco-imprenditore, invece, deve fare tutto da solo. È un’orchestra a uomo singolo, dove ogni strumento — gestione, produzione, finanza, relazioni — lo suona lui.

La vera differenza tra il titolare di un’impresa mono-decisionale e i proprietari di una grande azienda sta nel perché fanno impresa e in come la gestiscono. 


Quando parliamo di impresa mono-decisionale, non ci riferiamo solo a un negozio o a un laboratorio, ma a qualsiasi realtà in cui la responsabilità delle decisioni strategiche e operative è concentrata in una, o poche persone. Questo vale indipendentemente dal settore o dalle dimensioni ridotte dell’organizzazione. 


Il titolare di un’impresa mono-decisionale, anche se supportato da collaboratori o dipendenti, vive la gestione come una naturale estensione del proprio lavoro. 


Lavora direttamente sul campo, partecipa attivamente alla produzione di beni o servizi, gestisce personalmente i rapporti con clienti e fornitori, risolve problemi e prende decisioni rapide. Il suo guadagno deriva principalmente dal proprio impegno quotidiano e dalla presenza costante e indispensabile all’interno dell’attività.


Nelle attività mono-decisionali, come quella del ristoratore, il titolare è direttamente coinvolto nel lavoro operativo, e il suo obiettivo principale è trasformare il suo impegno lavorativo in una fonte di reddito stabile e sostenibile, per lui e per i suoi dipendenti. 


Il lavoro, per il piccolo imprenditore, coincide con la proprietà e rappresenta la leva principale per la creazione di valore.


Nelle attività strutturate, soprattutto quelle di dimensioni medio-grandi, l’organizza-zione si fonda su una chiara divisione di ruoli e responsabilità. 


Ogni funzione è affidata a persone con competenze specifiche e percorsi professionali adeguati, selezionate proprio per ricoprire quel ruolo. 


Le decisioni non dipendono dall’intuito di un singolo, ma seguono processi formalizzati, sostenuti da strumenti di controllo e sistemi gestionali.

In questi contesti, l’impresa non ruota attorno a un unico titolare, ma è spesso espressione di una compagine sociale più ampia: un capitale frazionato tra soci, fondi o investitori che, pur non essendo coinvolti direttamente nell’attività operativa, partecipano ai risultati attraverso la remunerazione del capitale investito.


La guida dell’azienda è affidata a un management professionale, e non all’improvvisazione. È questa la vera differenza: non tanto cosa si fa, ma come e con quali risorse si riesce a farlo.


Ma se questo passaggio — dalla gestione istintiva a un modello più strutturato — è così necessario, perché così pochi imprenditori mono-decisionali riescono davvero a compierlo?


La risposta è semplice quanto profonda: perché non è nella natura stessa del loro modello di impresa. Nelle attività mono-decisionali, il titolare è tutto: prende decisioni, risolve problemi, esegue il lavoro e ne controlla ogni fase. Al massimo si affida a qualche collaboratore o consulente esterno, ma il centro operativo e strategico rimane sempre lui.


L’idea stessa di costruire un’organizzazione autonoma, che funzioni indipendentemente dalla sua presenza costante, non è istintiva, e spesso non è nemmeno concepita come possibile.


Al contrario, nelle imprese strutturate, la struttura stessa è il fondamento dell’impresa. Non si fondano sull’energia di un singolo, ma sull’integrazione di competenze, ruoli, processi e responsabilità distribuite. È l’organizzazione che garantisce continuità, controllo e crescita. In questi contesti, l’adozione di assetti adeguati non è un salto culturale, ma un presupposto naturale, una condizione intrinseca dell’esistenza stessa dell’azienda.


È qui che nasce la distanza più profonda: in un caso è la persona a reggere l’impresa, nell’altro è l’impresa a reggere la persona. Ma questa differenza non è solo strutturale. Ha radici più sottili, più profonde, e spesso invisibili.


Perché le difficoltà non sono soltanto operative. Sono prima di tutto culturali. 

Il titolare mono-decisionale è cresciuto con l’idea che l’impresa si governi con il buon senso, con l’esperienza maturata sul campo, con l’intuito affinato a forza di prove ed errori.


Tutto ciò che richiama metodo, processo o sistema organizzativo viene istintivamente percepito come una complicazione inutile, una sovrastruttura pensata per i “grandi”, non per chi deve far quadrare tutto ogni giorno con le proprie mani.


È uno scetticismo antico, figlio di una cultura del fare che premia la concretezza e l’operosità, ma che spesso guarda con sospetto alla pianificazione, all’analisi, alla delega, al controllo di gestione. E finché questa mentalità non cambia, ogni discorso su “assetti adeguati” continuerà a suonare estraneo, quando non apertamente ostile.


Poi ci sono le difficoltà pratiche. Anche chi ha capito che serve un salto di qualità, si scontra con un muro fatto di tempo che manca, di risorse limitate, di competenze non disponibili. Fermarsi per ragionare sull’assetto della propria impresa sembra un lusso che nessuno può permettersi. Ogni minuto tolto all’operatività viene vissuto come un rischio: se non ci sono io, chi manda avanti tutto?


E infine, ci sono gli ostacoli psicologici. Delegare è difficile, soprattutto per chi ha costruito la propria impresa pezzo dopo pezzo, spesso da solo. Cedere una parte del controllo può far sentire vulnerabili. Fidarsi degli altri richiede non solo metodo, ma un cambio di mentalità. E molte volte è proprio questo il passaggio più duro: accettare che la forza del titolare non sta più nel fare tutto da sé, ma nel costruire un sistema che funzioni anche senza di lui.


Ed è proprio qui che si gioca la sfida vera. Non si tratta solo di adottare strumenti o applicare modelli. Si tratta di cambiare sguardo. Di passare da una logica di sopravvivenza a una visione di sviluppo. Di uscire dalla trappola dell’urgenza quotidiana per iniziare a lavorare — finalmente — anche sull’impresa, e non più solo dentro l’impresa.


Il salto di qualità non è un atto eroico. È una sequenza di piccoli gesti, fatti nel momento giusto, con gli strumenti giusti e — soprattutto — con le persone giuste al fianco.


Non serve cambiare tutto, serve iniziare da qualcosa. Serve riconoscere che quel cambiamento non è un peso in più, ma una via d’uscita dal sovraccarico che oggi ti logora e ti trattiene. Serve capire che diventare più organizzati non è snaturarsi, ma rimettersi al centro con più lucidità. 


E se guidare la tua impresa ti ha sempre chiesto tanto, adesso è il momento di chiedere qualcosa in cambio. Di alzare lo sguardo. Di costruire, davvero, qualcosa che ti porti oltre.

 
 
 

Comments


Unione Italiana Consulenti Strategici Aziendali (UN.I.C.S.A.)

Via Emanuele Filiberto, 271 - 00185 - Roma C.F. 96569360587 -
e-mail: Info@unicsa.it

© 2023 Tutti i Diritti Riservati
bottom of page