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Il politicamente corretto UCCIDE la leadership!

  • Immagine del redattore: Unicsa
    Unicsa
  • 16 giu
  • Tempo di lettura: 7 min

un gruppo di cinque persone  dove ognuna rappresenta uno stereotipo di politicamente corretto

Il politicamente corretto come propaganda di controllo


Nel mondo dell’impresa, il politicamente corretto si presenta come un linguaggio levigato, rassicurante, inoffensivo. È un linguaggio adattivo nato per rispondere alle esigenze di un pubblico mainstream, spesso televisivo oppure politico: dove si devono accontentare tutti.


Ma dietro questa patina gentile si nasconde spesso la vera incapacità di affrontare la verità, di nominare ciò che davvero non funziona, e di assumersi la responsabilità di agire con coraggio.


Il concetto di "politicamente corretto" nasce con l’intento, nobile e condivisibile, di tutelare le persone da discriminazioni, stereotipi e offese gratuite, creando spazi linguistici e sociali dove tutti possano sentirsi inclusi e rispettati.


Tuttavia, quando questo approccio si irrigidisce e viene applicato con eccessiva ortodossia, rischia di trasformarsi in uno strumento di omologazione più che di liberazione, diventando esso stesso elemento di discriminazione per chi non si adegua.


In un mondo ideale, il politicamente corretto dovrebbe rappresentare una forma di giustizia sociale che riconosce le differenze senza cristallizzarle o renderle motivo di divisione.


Ma se lo si impone come unico e valido codice morale o culturale, finisce per appiattire la varietà delle opinioni, dei linguaggi, delle espressioni e perfino dei modi di essere. Invece di proteggere la diversità, la soffoca sotto un velo di presunta neutralità, dove tutti devono parlare e pensare allo stesso modo per evitare di essere accusati di devianza, insensibilità o di intolleranza.


Affermare che il primo atto di rispetto verso la diversità consista nell'accettare che non siamo tutti uguali, è una verità scomoda ma essenziale.

Le differenze tra le persone – nel carattere, nella cultura, nel corpo, nella storia – non sono un problema da risolvere, ma un valore da riconoscere. Quando invece si vuole pretende che tutti si comportino allo stesso modo, parlino allo stesso modo, pensino allo stesso modo, non si sta creando inclusione: si sta cancellando l’identità di ciascuno. Si spinge la diversità sotto al tappeto, come se fosse un disturbo.


Il vero pericolo arriva quando questa cancellazione viene venduta come un passo avanti, come se fosse un progresso. È un’illusione gentile ma vuota. È come dare da bere nel deserto: un gesto che dà sollievo al proprio bisogno superficiale, ma che non nutre nel profondo. Non basta mantenere in vita le persone, bisogna anche dar loro qualcosa che le faccia crescere, che le faccia sentire parte di qualcosa.


Includere non significa far finta che le differenze non esistano, qualunque esse siano. Significa rispettarle, accettarle, valorizzarle, saperci convivere, anche quando fanno attrito. 


Vuol dire creare spazi dove ogni persona può essere sé stessa, senza dover indossare una maschera per essere accettata. L’inclusione vera è faticosa, certo. Non è fatta di parole dolci, ma di coraggio.


E proprio qui nasce una delle obiezioni più frequenti: “Una volta si difendevano le minoranze, ora sembra che siano loro ad avere in mano tutto. E chi non si adegua viene escluso.” È un pensiero diffuso, spesso espresso con amarezza e senso di ingiustizia.


Eppure, se guardiamo con più attenzione, non è che la minoranza sia diventata una nuova maggioranza: è che, nel tentativo di proteggere giustamente chi era stato messo ai margini, si è finiti per creare un nuovo squilibrio. Non volontariamente, ma come effetto collaterale.


Ora, più che mai, serve riportare equilibrio. Difendere i diritti di chi può essere escluso non può significare zittire o colpevolizzare gli altri. L’inclusione non si costruisce facendo girare il potere da una parte all’altra, ma trovando un punto comune dove tutti, davvero tutti, possano stare. 


Dove il rispetto non sia solo una forma, ma un contenuto. Dove non esista più il bisogno di contare chi è maggioranza e chi è minoranza, perché ciascuno venga ascoltato per ciò che è, non per il gruppo che rappresenta.


Anche nelle aziende questo si sente forte. Il rischio è che il leader, per paura di “sbagliare tono” o “usare le parole sbagliate”, si chiuda in sé stesso, smetta di decidere, si lasci guidare dalla paura invece che dalla visione. Ma un leader che si trattiene non guida. E senza guida, nessuna squadra cresce.


Ghettizzare il pensiero diverso o metterlo all’indice con la stessa veemenza con cui si condanna un atto razzista significa rovesciare la logica che si pretende di difendere.


Il discriminazione è la negazione dell’altro in quanto diverso, ed è inaccettabile in tutte le sue forme.

Ma anche il rifiuto aprioristico di qualsiasi voce non allineata al linguaggio e ai concetti comunemente accettati dalla massa, rischia di diventare una nuova forma di discriminazione, più sottile e meno visibile, ma altrettanto pericolosa.

In definitiva, il politicamente corretto è corretto solo nella misura in cui si mette al servizio della comprensione reciproca, della gentilezza e del dialogo autentico.


Quando diventa uno strumento di censura morale, inibizione culturale e repressione del dissenso, smette di essere corretto e inizia a diventare una forma di controllo.

Il rispetto non si impone per legge, né si costruisce sulla paura di sbagliare parola: si coltiva nella libertà e nella volontà sincera di vedere nell’altro non un nemico da evitare, ma una persona da ascoltare.



Cosa c’entra con la gestione dei team?

La promessa del politicamente corretto è nobile: includere, rispettare, armonizzare. Ma il suo effetto reale, quando portato all’estremo, è spesso devastante: genera passività, ambiguità, e soprattutto una paralisi del comando.


Attenzione: non è il rispetto il problema. Non è la cooperazione. Non è la valorizzazione delle differenze. Tutti questi sono principi ispiratori sani e necessari, ma diventano velenosi quando perdono l’ancoraggio al risultato, alla verità e alla responsabilità.


È lì che si apre la frattura tra ciò che piace e ciò che funziona. E se non la si nomina, questa frattura diventa una voragine.

In azienda, il politicamente corretto c’entra eccome, perché quando diventa il linguaggio dominante:


  • Soffoca le differenze invece di valorizzarle;

  • Crea alibi per tutti, anche chi non contribuisce;

  • Blocca la leadership, che teme di essere percepita come autoritaria solo per aver dato una direzione chiara.


Un team per crescere non deve essere rassicurato a ogni costo. Ha bisogno di coerenza, ruoli, confini e guida affidabile capace di focalizzare le azioni collettive su: performance, efficacia di risultato e coinvolgimento.


👉 Il rispetto non è silenzio. È saper dire ciò che è vero in modo utile.

👉 La leadership non è fabbrica del consenso, ma è una costruzione coraggiosa di contesto.



Due ruoli, due mondi diversi

Questa frattura nasce da un dato ineludibile: datore di lavoro e dipendenti non sono uguali. Non sentono allo stesso modo e non hanno lo stesso fine.


  • Il datore di lavoro dovrebbe essere il custode della visione, quel leader che si assume il rischio, regge il peso e si identifica con l’azienda.

  • Il dipendente dovrebbe essere un collaboratore funzionale orientato alla visione, che presta il proprio tempo in cambio di tutela, compenso e stabilità.


Non è cattiveria, né egoismo. È solo struttura. Il loro punto di vista è diverso perché diversa è la loro posizione esistenziale.


Il politicamente corretto non aiuta perché finge che siamo tutti sullo stesso piano, mentre in realtà uno guida e l’altro esegue, uno investe e l’altro si adatta, uno costruisce visione e l’altro cerca equilibrio.


Il buonismo in azienda: la versione relazionale del compromesso inefficace.


Si evita lo scontro per non ferire, si sorvola sull’errore per non demotivare, si premiano tutti per non escludere nessuno. Ma ciò che nasce come gesto di empatia si trasforma in cecità sistemica: si crea un ambiente in cui l’incompetente viene tutelato e il meritevole trascurato.


Quando tutto è permesso per non offendere, nulla viene protetto davvero.


La cooperazione forzata


Quando questa non è basata su chiare responsabilità ma su “buone intenzioni” generalizzate, produce dinamiche disfunzionali. Senza regole, la cooperazione si trasforma in complicità nella mediocrità.


Si confonde la coesione con il consenso, e si finisce per appiattire ogni leadership sul principio del “non far sentire nessuno un incapace”. Ma la squadra non nasce dal piacersi. Nasce dal sapere chi fa cosa, come, perché e con quali conseguenze.



La visione condivisa


Non è una frase da manifesto. È un’architettura concreta: ruoli, obiettivi, incentivi e limiti.


Nel politicamente corretto, la visione rischia di diventare un mantra emotivo senza impatto.


Una visione non accompagnata da struttura (processi e procedure) è solo una poesia da appendere sui muri.


Il rispetto delle identità


Se inteso come tabù intoccabile, blocca la selezione naturale del merito. Non tutto si equivale. Non tutte le sensibilità sono utili alla funzione.

Il vero rispetto si manifesta nel dire la verità anche quando è scomoda, nel correggere ciò che danneggia, nel valorizzare ciò che funziona.



Il paradigma “chi comanda e chi esegue”


Non è un concetto obsoleto. È stato solo rimosso dal discorso pubblico, ma decisivo nella realtà. Quando il capo smette di comandare per paura di sembrare autoritario, emergono leadership occulte, alleanze tossiche e dinamiche sotterranee.


Comandare non è opprimere. È proteggere la direzione. E quando la direzione non è protetta, nessuno la segue.


La leadership è il coraggio di essere impopolari per essere utili


Una guida autentica sa che non può piacere a tutti. E non deve.

Leadership è dire “no” quando è più facile dire “si”, è sacrificare l’immediato per custodire il lungo termine. È agire per il bene del sistema, non per farsi applaudire.


Il bene dell’impresa deve tornare ad essere criterio di verità. Il fine giustifica i mezzi, se i mezzi sono dichiarati, tracciabili e funzionali al bene collettivo.



Solo chi ha il coraggio di essere vero può riscrivere le regole del gioco


Questa non è una guerra tra datori di lavoro e dipendenti. È una crisi di contesto, generata da un’illusione: che basti essere gentili per essere giusti, comprensivi per essere autorevoli, orizzontali per essere efficaci.


Il politicamente corretto, in eccesso, diventa una maschera che blocca il cambiamento. Non costruisce ponti ma evita solo gli attriti. Ma dove non c’è attrito, non c’è neanche direzione.


Per creare imprese sane servono: linguaggi diretti, sistemi trasparenti, leader adulti, non seduttivi ma strutturati. Ed è da qui che dobbiamo partire: dalla frattura tra ciò che un imprenditore desidera – visione, impatto, costruzione – e ciò che un dipendente vive – equilibrio, protezione, distanza.


Non siamo uguali. Non sentiamo allo stesso modo. E non dobbiamo fingere che sia così.

👉 La leadership è l’arte di armonizzare differenze reali, senza annullarle, ma indirizzandole verso una costruzione comune.


Solo così il rispetto diventa utile, la cooperazione produttiva, la diversità generativa.

 
 
 

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