Mestieranti del fallimento e imprenditori sfortunati
- Unicsa

- 25 giu
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Mi trovavo al termine di un salotto finanziario, uno degli incontri che si tengono nel “PONTE DI COLLEGAMENTO BANCA IMPRESA”. Avevamo appena terminato il panel sulla sostenibilità aziendale e sulla gestione strategica della liquidità, quando mi avvicinò un imprenditore, con lo sguardo appesantito più dalla preoccupazione che dalla stanchezza.
Si era trattenuto fino alla fine, in disparte, come chi cerca un’occasione per farsi ascoltare senza dare troppo nell’occhio.
Lo capii subito. Era in una chiara difficoltà di cassa. Di quelle difficoltà che non hanno più il volto di una semplice difficoltà momentanea, ma il profilo dolente di chi ha già esaurito tutte le soluzioni possibili. Aveva accumulato un debito malato difficilmente ripianabile.
Dopo aver mandato a tappo tutti i fidi, si era autofinanziato non pagando le ritenute fiscali sui dipendenti, l’iva mensile e i contributi previdenziali dei dipendenti, più altre cose.
Rateizzava ogni cosa per rimanere nella legalità, ma era arrivato al punto di non riuscire ad andare avanti così. Non ha finanziato investimenti produttivi di un ROI ma ha coperto perdite occulte a causa di mancati guadagni e crediti incagliati difficilmente riscuotibili.
Ha fatto tutto questo per pagarsi lo stipendio e sostenere economicamente i bisogni della sua famiglia. Non poteva rinunciare a nulla, non aveva alternative.
Intuii la situazione e gli feci capire che sapevo di cosa parlasse, e che poteva aprirsi senza timore del giudizio. Mi parlò senza troppi filtri, come capita quando ci si sente in pericolo e si vuole vomitare tutto ciò che pesa all’interno. Lamentava la sua condizione con frustrazione e un senso di ingiustizia viscerale.
Si sentiva una vittima del mercato, dello Stato e del sistema: lui che aveva lavorato duro, che non aveva mai rubato nulla, che aveva cercato in ogni modo di farcela onestamente. E ora rischiava di perdere tutto per colpa di clienti infedeli, collaboratori che non prendevano mai iniziativa e che lui doveva sostenere come se fossero pacchi da magazzino. Senza di lui tutto si sarebbe fermato, non poteva contare su nessun’altra.
Le sue parole, a più riprese, lasciavano trasparire molto più di quello che voleva far credere. Senza rendersene conto, continuava a paragonarsi proprio a quei “mestieranti del fallimento”, come li chiamava lui. Diceva che loro “sanno come fare”, che “alla fine ci guadagnano sempre”, che “si mettono via i soldi prima di mandare tutto a rotoli”.
Lo diceva con rabbia, certo, ma sotto sotto c’era anche quel tono amaro tipico di chi un po’ invidia per chi riesce comunque a salvarsi la pelle. Ripeteva spesso: “Io non sono come loro”. E davvero, non lo era. Ma il punto, alla fine, non era sempre quello.
Quel fare paragoni era il segnale che qualcosa dentro di lui si era incrinato. Non era solo uno sfogo, era una presa di coscienza che faceva capolino tra le pieghe. E proprio da lì, da quella tensione non detta, era chiaro che il vero nodo non stava nella differenza morale tra lui e i mestieranti, ma nel fatto che, alla fine, si trovavano sullo stesso binario.
Percorsi diversi, intenzioni diverse, ma stessa destinazione.
Perché, al netto delle etichette, esistono due modalità opposte ma convergenti di cadere nel fallimento. Una è consapevole, più strategica e progettata. L’altra inconsapevole, più emotiva e densa di ingenuità.
Eppure, entrambe conducono allo stesso esito: la perdita di controllo, la compromissione del sistema, la fine dell’autonomia, la liquidazione giudiziale. Cambiano le intenzioni, ma il risultato è lo stesso. Cambia il bagaglio morale, ma non quello operativo.
Cambia il giudizio umano, ma non quello della realtà.
Il mestierante del fallimento è una figura cinica ma lucida. Ha fatto della crisi un mestiere, sa muoversi tra i margini della legalità con una disinvoltura fredda. Conosce i meccanismi societari e normativi, sa cosa evitare, sa dove mettere in salvo ciò che conta davvero.
Ha la scaltrezza di scegliersi i migliori consulenti e ha i soldi per pagarli. Quando un’impresa muore, lui ne ha già preparata un’altra. Quando il fisco bussa, lui ha già spostato l’asse. È tecnicamente inattaccabile, anche se eticamente discutibile.
Il titolare d’impresa che avevo davanti, invece, era l’esatto opposto. Aveva cercato di salvare il suo lavoro ad ogni costo, ignorando che una situazione economicamente e finanziariamente insostenibile non si può sostenere a lungo, rimandando al futuro ogni decisione strategica di cambiamento.
Aveva stretto i denti, accumulato debiti, sperato nel futuro come se questa di per sé fosse una strategia. Non aveva difese, né riserve, né vie di fuga.
Era rimasto nudo, senza soldi, perché si era completamente immolato nella sua attività. Non aveva mai creduto veramente che potesse un giorno davvero finire davvero. E ora si trovava nel punto più crudele: senza risorse, senza soluzioni, ma anche senza più alibi.
Le imprese non falliscono per caso, né all’improvviso. Falliscono per accumulo. Per una serie lenta e costante di omissioni, rinvii, illusioni. Il mestierante costruisce la bomba con metodo e poi ne studia il timer.
L’imprenditore inconsapevole la monta pezzo dopo pezzo senza sapere cosa sta facendo, convinto che stia solo guadagnando tempo. Quando esplode, non è mai una sorpresa.
È solo il conto di una tarantella durata troppo a lungo.
Ed è proprio questo il cuore del paradosso: l’uno, pur avendo agito con disinvoltura, si è preparato e protetto. L’altro, pur avendo agito in buona fede, è rimasto del tutto esposto e si è reso conto della gravità quando ormai era tropo tardi.
Entrambi si sono ritrovati allo stesso punto — compromessi, tecnicamente colpevoli, sanzionabili — ma solo uno ha preparato la propria caduta. L’altro ci inciampa dentro, impreparato e stremato. E mentre il primo può ripartire furbescamente sotto mentite spoglie, il secondo rischia di non rialzarsi più.
Non voglio giustificare il mestierante, ne prendo tutte le distanze, ma voglio evidenziare un paradosso tanto scomodo quanto reale. Il sistema, purtroppo, fa differenza nelle intenzioni. Non premia la bontà, non assolve l’onestà, non considera la fatica.
Guarda la cassa, i numeri, i margini, le responsabilità. E soprattutto guarda le distrazioni. A poco conta se “c’hai capato la famiglia” o se ti sei approfittato del sistema: agli occhi della procedura, sempre distrazioni sono. Sempre errori da pagare.
Lì non c’è spazio per distinguere tra chi ha pianificato con cinismo e chi ha agito con perchè non aveva alternative. Il sistema non legge il cuore, legge il bilancio. Non riconosce la buona fede come attenuante se non è accompagnata da competenza, da tracciabilità, da strumenti di difesa.
E allora la realtà si ribalta: spesso paga di più chi aveva meno colpa, semplicemente perché aveva meno strumenti. Meno tempo per fermarsi, meno forze per organizzarsi, meno competenze per difendersi. Più buona volontà, sì, ma meno mezzi per trasformarla in protezione.
Ed è proprio in questa asimmetria silenziosa che si consuma la vera ingiustizia.
Non nel giudizio etico tra buoni e cattivi, ma nella distanza operativa tra preparati e sprovveduti.
Chi ha studiato il sistema sa come piegarlo, come aggirarlo, come uscirne indenne. Chi invece si affida alla speranza, alla fatica, alla lealtà, spesso finisce per soccombere.
Perché il sistema — e questa è la verità più scomoda — non premia la sincerità, premia la lucidità. Ecco perché non basta essere dalla parte giusta: bisogna anche sapere come restarci senza farsi travolgere.
La lezione, se possiamo chiamarla così, è che non basta avere ragione. Perché nel mondo reale, chi non è preparato viene travolto. E chi è identificato troppo con il lavoro della sua impresa, rischia di affondare con essa.
Il mestierante, per quanto ambiguo e scorretto, almeno distingue sé stesso dalla sua azienda. L’imprenditore inconsapevole no. E quando l’azienda muore, muore anche la sua identità.







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