Il Mito dell'Imprenditore PARTE 1
- Unicsa
- 18 mar
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 19 mar

Essere imprenditori in Italia significa navigare controcorrente in un sistema complesso. Ma cosa distingue chi sopravvive da chi fallisce? Scopri perché la visione strategica è la chiave del successo.
Senza questa prospettiva, anche lo sforzo più eroico rischia di disperdersi in un continuo "combattere contro i mulini a vento" – un'immagine che ben rappresenta la lotta contro ostacoli percepiti come insormontabili per via di una preparazione insufficiente o di una mancanza di competenze strategiche.
Il contesto italiano rende questa sfida ancora più ardua. Nonostante le difficoltà strutturali e culturali che abbiamo descritto, è fondamentale sottolineare che l'imprenditore, per essere davvero tale, deve innanzitutto lavorare su sé stesso: sviluppare una mentalità orientata al cambiamento, all’innovazione e alla creazione di valore sostenibile nel lungo periodo.
Questo significa saper bilanciare il pragmatismo necessario per affrontare le sfide quotidiane con una visione più ampia, capace di guidare ogni decisione verso un progetto di crescita più ambizioso e significativo.
Quindi, ciò che manca non è lo spirito di sacrificio o la dedizione – qualità che molti imprenditori italiani possiedono in abbondanza – ma un cambio di paradigma: dal semplice "fare" al "realizzare", dall’immediato al duraturo, dall’individuale al collettivo.
Solo così l’energia e l’impegno di chi guida un’azienda possono trasformarsi in un valore autentico, capace di generare impatti positivi non solo all’interno del proprio microcosmo, ma sull’intero sistema economico e sociale.
A dire il vero l'Italia non brilla per innovazione e non possiamo dire che sia il motore principale che muove l’imprenditoria, e chi osa in questa direzione spesso si trova a operare in un contesto che non la premia, né la incoraggia.
Nel nostro Paese, chi decide di rompere gli schemi, di sfidare il mercato con qualcosa di nuovo o di diverso, lo fa più spesso per impulso o necessità, piuttosto che per una strategia consapevole e strutturata. È un coraggio che, paradossalmente, deriva più dall’inconsapevolezza dei rischi e delle difficoltà che dall’elaborazione di un solido piano strategico.
Questo aspetto rende l’imprenditore italiano quasi un avventuriero del mercato, qualcuno che si lancia senza una solida rete di supporto, facendo leva più sul suo istinto e sull’intraprendenza che su una pianificazione strategica e una previsione razionale.
In questo contesto, il concetto di pre-occupazione assume un significato ben diverso dal senso emotivo di ansia o timore a cui spesso è associato.
Pre-occuparsi significa, invece, occuparsi in modo preventivo e consapevole di ciò che si potrebbe incontrare lungo il percorso, sviluppando una visione di lungo termine.
Non è un segno di debolezza, ma una manifestazione di lungimiranza e consapevolezza strategica. È la capacità di "vedere dietro la curva", anticipando con intelligenza e precisione le conseguenze, spesso celate ma insite nelle azioni del presente.
Questa attitudine si avvicina alla preparazione meticolosa di uno sportivo, che allena corpo e mente per affrontare le sfide imprevedibili della competizione. Allo stesso modo, l'imprenditore lungimirante si prepara agli imprevisti con competenza, mettendo "in campo" azioni strategiche che gli consentano, non solo di gestire la realtà con efficacia, ma di proiettarsi verso una motivante prospettiva futura ricca di significato.
Questo approccio, distintivo delle imprese innovative nei paesi anglosassoni, si basa su una pianificazione strategica e una visione di lungo termine, elementi che lo contrappongono nettamente a una modalità più emotiva e reattiva.
Quest'ultima è tipica di chi affronta le sfide improvvisando, lasciandosi guidare dall'urgenza del momento o dall'entusiasmo connesso ad una gratificazione immediata. La differenza risiede proprio nella capacità di trasformare l'istinto in strategia, sostituendo l'impulsività con un metodo pragmatico e orientato a realizzare obiettivamente obiettivi solidi e duraturi.
Dire "proviamoci" può sembrare un atto di coraggio, ma spesso nasconde un'inconsapevolezza dettata dalla mancanza di un'approfondita analisi dei rischi e delle complessità del sistema, trasformandosi così in un salto nel vuoto.
Gli improvvisati si distinguono per l'uso frequente di espressioni simili, come "me lo merito", "sono sicuro che...", "sono ottimista per natura", "è questione di karma...", "seguo il pensiero positivo" o "sento che è la volta buona". Queste frasi, più che rivelare una strategia concreta, evidenziano un superficiale approccio emotivo, privo della consapevolezza critica necessaria per affrontare con successo le sfide del mercato.
Innamorarsi delle proprie idee è il primo atto di supponenza che "piega la parabola del successo", rendendo più difficile distinguere tra intuizione autentica e semplice ostinazione.
Le imprese anglosassoni, al contrario, integrano la pre-occupazione come un principio fondamentale, trasformandola in una leva per costruire strategie efficaci e adattarsi rapidamente ai cambiamenti. Questo approccio permette di evitare di essere colti di sorpresa dall'inevitabile complessità del mercato, trasformando l'incertezza in un'opportunità di crescita.
Affrontando le sfide con pragmatica lucidità, le imprese riescono a gestire con competenza le incognite fisiologiche della competizione, canalizzando l'entusiasmo in un'energia strutturata, capace di generare crescita sostenibile e successo duraturo.
Questo equilibrio tra visione strategica e azione consapevole diventa il motore di un progresso che guarda oltre il presente, costruendo solide basi per il futuro.
E questa complessità, che per molti si rivela insormontabile, è il vero limite dell’innovazione in Italia. In realtà non è solo un ostacolo tecnico, ma un vero e proprio limite culturale.
Senza voler troppo generalizzare, viviamo in un paese che, più che premiare il merito e la creatività, spesso glorifica la furbizia del "saltare la fila", quella capacità di sfruttare le pieghe del sistema per ottenere un immeritato vantaggio competitivo, derogando alle regole e penalizzando conseguentemente chi cerca di costruire qualcosa di autentico e sostenibile.
Mentre in altre nazioni l’innovazione è incentivata da ecosistemi favorevoli, con fondi accessibili, reti di investitori e una cultura che considera il fallimento come un’opportunità di apprendimento esperienziale, da noi tutto sembra congiurare contro chi tenta di "fare qualcosa di diverso".
Il peso schiacciante della burocrazia, la mancanza di incentivi concreti e una diffidenza sociale radicata verso il cambiamento creano un ambiente ostile, in cui molti progetti vengono soffocati prima ancora di prendere forma.
Questo non è solo un problema economico, ma un limite strutturale che penalizza chiunque voglia andare oltre la mediocrità, spingendo invece a ricorrere a scorciatoie e compromessi. In un sistema così ingessato, l’innovazione si riduce a un atto di coraggio isolato, piuttosto che il risultato di una strategia collettiva e condivisa.
L’insuccesso o la mera sopravvivenza imprenditoriale in Italia sono direttamente proporzionali al grado di ignoranza, inconsapevolezza e impreparazione, elementi che rappresentano la radice più profonda delle difficoltà.
Questo non significa mancanza di intelligenza o di volontà, ma un'assenza di una solida cultura aziendale e di strumenti adeguati per affrontare la complessità del mercato. È come se, nel nostro Paese, mancasse una palestra dove allenarsi al pensiero strategico e alla visione di lungo periodo.
La cultura dell’improvvisazione, così radicata nel tessuto imprenditoriale italiano, non si limita a essere un problema personale dell’imprenditore, ma si riflette nella struttura stessa del sistema economico e sociale.
Quando le basi di un’impresa sono costruite sull’istinto o sul cieco ottimismo — alimentato da frasi come "proviamoci", "me lo merito", "sono sicuro che..." — si perde la possibilità di anticipare e gestire la complessità. Questo approccio, pur apparentemente coraggioso, tradisce una supponenza che porta a ignorare i rischi e le opportunità nascoste.
Innamorarsi delle proprie idee, senza il sano dubbio e la giusta dose di autocritica mista a preparazione, è il primo passo verso il fallimento.
È un atteggiamento che piega la curva del successo, trasformando l'entusiasmo iniziale in ostinazione sterile. Chi manca di una formazione strategica e di un’attitudine analitica si trova a lottare contro il mercato, anziché navigarlo con consapevolezza.
In Italia, l’imprenditore non dispone del supporto di un ecosistema strutturato come quello anglosassone, dove la cultura del fallimento viene insegnata come un’opportunità di apprendimento e non come uno stigma.
Da noi, invece, il contesto culturale e sociale italiano spesso contrasta con questa visione. La burocrazia asfissiante, l’inefficienza amministrativa e la scarsa cultura dell’innovazione non solo penalizzano chi tenta di realizzare qualcosa di autentico e innovativo, ma alimentano sfiducia, supponenza, arroganza e un diffuso senso di impunità.
Questi atteggiamenti, radicati spesso in una sleale mentalità competitiva, portano furbescamente a comportamenti scorretti e a un senso comune di regole non scritte ma largamente considerate.
Il retaggio culturale della furbizia italiana affonda le sue radici in secoli di storia e si manifesta come una strategia di sopravvivenza nata in un contesto spesso caratterizzato da instabilità politica, oppressioni esterne e sistemi di potere opprimenti.
In un Paese dove le regole sono percepite come complicate, punitive o inique, la furbizia si è affermata come una forma di adattamento creativo, una capacità di "aggirare l'ostacolo" piuttosto che affrontarlo frontalmente.
Tuttavia, ciò ha generato un paradosso: da un lato, la furbizia è celebrata come simbolo di intelligenza pratica e abilità nell'arte di arrangiarsi; dall'altro, perpetua un sistema in cui la ricerca di scorciatoie diventa quasi una necessità, a discapito di una visione a lungo termine.
Questo retaggio emerge con forza nel mondo delle imprese. La burocrazia asfissiante, l’inefficienza amministrativa e la tassazione opprimente alimentano un senso di sfiducia nelle istituzioni, spingendo molti a considerare la furbizia non solo accettabile, ma indispensabile per sopravvivere. A tal punto che parte della giurisprudenza ha fatto emergere il concetto di "evasione per necessità".
È certamente più facile, anziché investire tempo ed energia in progetti autentici e innovativi, che richiedono impegno e fatica, dedicarsi all’elusione delle regole, al mantenimento dello status quo o limitarsi al "minimo indispensabile" per evitare di attirare attenzioni indesiderate.
Questa mentalità, però, ha un prezzo elevato in termini di conseguenze e di rischi non calcolati. Privilegiando il vantaggio immediato rispetto alla costruzione di un valore duraturo, la furbizia tende a soffocare il potenziale innovativo e la capacità di creare qualcosa di realmente trasformativo.
È come se la creatività, anziché essere canalizzata verso il progresso e l'eccellenza, fosse deviata verso il "sapersi arrangiare" per sopravvivere in un sistema percepito come ostile.
In questo scenario, l'abilità nel "sapersi arrangiare", se da un lato riflette una ingegnosa creatività, dall’altro perpetua un circolo vizioso.
La competizione sleale, alimentata da scorciatoie e compromessi etici, soffoca il potenziale innovativo e scoraggia chi cerca di agire correttamente.
A peggiorare il quadro si aggiungono l’ingiustizia tributaria e la percezione di spreco di una pubblica amministrazione inefficiente, che spesso spreca risorse invece di sostenere chi tenta di costruire valore.
Eppure, questa inclinazione culturale non è immutabile. È possibile trasformare l’arte della furbizia in una capacità più nobile: quella di trovare soluzioni intelligenti e originali che rispettino le regole e contribuiscano a migliorare il sistema.
Questo richiede un cambio di prospettiva, un ritorno alla fiducia in se stessi, nella possibilità di innovare e crescere senza compromessi etici, e una cultura che premi il merito e il coraggio imprenditoriale piuttosto che la capacità di aggirare le difficoltà.
Essere imprenditori, dunque, richiede non solo l’abilità di affrontare le sfide quotidiane, ma anche quella di mantenere uno sguardo lucido e lungimirante, capace di guidare ogni scelta verso un obiettivo più grande e significativo.
Per farlo, è necessario spezzare questa spirale di sfiducia e furbizia, promuovendo una cultura che valorizzi il merito, l’integrità e l’impegno verso una visione condivisa di crescita e innovazione.
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