Il mito dell'imprenditore PARTE 2
- Unicsa
- 18 mar
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 19 mar

Eppure, nonostante tutto, molti imprenditori trovano la forza di andare avanti. È questa resilienza, questo desiderio di creare e costruire nonostante gli ostacoli, che li rende eroici.
La loro battaglia non è solo contro le difficoltà pratiche, ma anche contro una narrazione culturale che spesso li percepisce con compassione, quasi come se fossero martiri del loro stesso coraggio.
Al tempo stesso, però, c’è un sospetto radicato: l’idea che l’imprenditore sia un "corsaro", capace di aggirare le regole, di trovare scorciatoie e privilegi. Questa duplice visione, che oscilla tra l’ammirazione e la critica, riflette il paradosso italiano.
Da un lato, riconosciamo il valore del loro coraggio e del loro impegno; dall’altro, li guardiamo con diffidenza, quasi fossero approfittatori o privilegiati.
L’imprenditore italiano è un eroe non tanto per il suo successo, ma per la sua capacità di resistere, di trasformare l’ostilità in una motivazione, di cercare soluzioni dove altri vedono solo problemi.
La sua non è una gloria scintillante, come quella celebrata nel "sogno americano". È piuttosto una gloria silenziosa, fatta di piccole vittorie quotidiane: un progetto che prende vita, un’azienda che supera un momento difficile, una comunità che cresce grazie al suo lavoro.
È un eroe che lotta in solitudine, spesso senza il riconoscimento sociale che meriterebbe, ma con la consapevolezza che ogni passo avanti è una conquista che ha valore non solo per sé, ma per tutto il sistema di cui è parte.
La burocrazia soffocante, le tasse opprimenti, la difficoltà nell’accesso al credito e un mercato frammentato disegnano un quadro dove fare impresa è una lotta continua per la sopravvivenza.
È come vedere qualcuno che prova a correre una maratona con un macigno legato al piede: la fatica è evidente, ma l’ammirazione per il gesto si trasforma rapidamente in empatia per lo sforzo titanico che comporta.
A questa immagine si aggiunge un pregiudizio radicato, che dipinge l’imprenditore come un furbo corsaro, un giocatore che sa piegare le regole del sistema a proprio vantaggio.
È un pregiudizio alimentato da scandali, evasione fiscale e una cultura diffusa del sospetto verso chi possiede più libertà economica rispetto al lavoratore dipendente. Così, mentre in America l’imprenditore è un innovatore che cambia il mondo, in Italia è talvolta percepito come un opportunista che "frega il sistema".
Eppure, questa visione è tanto ingiusta quanto limitante. L’imprenditore italiano è un combattente, un resiliente, che spesso riesce a creare valore nonostante tutto.
Non ha la possibilità di costruire il proprio successo su un ecosistema che premia l'innovazione e il rischio, come accade negli Stati Uniti. Al contrario, deve navigare un contesto ostile, fatto di regole rigide, pochi incentivi e un mercato talvolta refrattario al cambiamento.
È un realizzatore, più che un visionario. Ma questa lotta per la sopravvivenza non ha lo stesso fascino narrativo di una startup che nasce in un garage e diventa un colosso globale.
Questa differenza di narrazione non è solo culturale, ma sistemica. Il mito americano dell’imprenditore è radicato in un contesto dove l’innovazione è incentivata, il fallimento non è uno stigma, e le opportunità sono accessibili a chi ha l’ambizione di coglierle.
In Italia, invece, il fallimento è visto come una macchia indelebile, e l’idea stessa di rischio è scoraggiata. Questo modello frena l'emergere di figure ispirazionali e lascia spazio a una visione dell’imprenditoria come un mestiere di fatica, piuttosto che come un’avventura di crescita e cambiamento.
C’è poi un’altra questione: l’imprenditore italiano opera in un contesto di imprese familiari e di piccole e medie imprese, che costituiscono il 99% del tessuto economico del Paese. Queste realtà non hanno le stesse ambizioni globali di una multinazionale o di una startup tech americana.
Non si punta a "cambiare il mondo", ma a creare stabilità, continuità e, magari, a lasciare un’eredità ai figli. Non c’è il mito dell’innovazione radicale, ma quello della tradizione che si rinnova. Anche questo contribuisce a una narrazione meno epica e più concreta.
In sintesi, l’Italia non offre all’imprenditore il contesto per diventare un eroe. Non perché manchino la creatività o il talento, ma perché il sistema premia la sopravvivenza più che l’innovazione. L’immagine dominante è quella di una figura che lotta per mantenere a galla la propria attività, con tutti gli oneri e le difficoltà che ciò comporta.
E questo, forse, è il vero racconto dell’imprenditore italiano: non un visionario, ma un resistente. E in un certo senso, anche questa è una forma di eroismo, per quanto meno spettacolare e celebrata rispetto alle narrazioni che arrivano dall’altra parte dell’oceano.
Dietro il mito dell’imprenditore visionario si cela un panorama variegato, fatto di motivazioni pratiche, sacrifici quotidiani e, spesso, necessità economiche.
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